
Turandot – Eugenia Canale e Rebus Quartet
Etichetta discografica: Abeat Records
Data di uscita: 16 maggio 2025
C’è un momento, durante l’ascolto di Turandot, in cui il tempo si ferma. Il pianoforte di Eugenia Canale svela il cuore segreto della celebre opera pucciniana, non con le parole, ma con il respiro profondo della musica jazz. E lo fa insieme al suo Rebus Quartet, in un album che è tanto un tributo quanto una rilettura sognante e audace.
Turandot è più di un progetto: è una dichiarazione d’amore per la musica, per i misteri dell’anima e per quel labirinto emotivo che l’opera di Puccini rappresenta da quasi un secolo.
Il jazz come chiave per decifrare Puccini
L’approccio è rispettoso ma non reverenziale. Canale prende la partitura e la trasforma in materia viva, liquida. Lo fa con classe, precisione e un pizzico di ironia, lasciando che ogni nota sia libera di fluttuare. Le riletture di brani come “Popolo di Pekino!” o “Nessun Dorma!” non cercano di imitare la grandiosità teatrale, ma piuttosto la sublimano in gesti intimi, spesso swingati, a volte esplosivamente moderni.
C’è uno charme squisitamente europeo in questa operazione, qualcosa che profuma di velluto e di jazz club nascosti tra i vicoli, eppure con un respiro internazionale, aperto alle contaminazioni del bebop, del prog, dell’improvvisazione libera.
Un quartetto che danza sulle ombre
Il Rebus Quartet – con Achille Succi al sax alto e clarinetto basso, Tito Mangialajo Rantzer al contrabbasso e Roberto Paglieri alla batteria – si muove con sinergia ipnotica. Ogni membro del gruppo è una voce distinta ma perfettamente intrecciata in un dialogo musicale che non smette mai di sorprendere. In particolare, i fiati di Succi aggiungono profondità drammatica e dolcezza obliqua, come se gli spettri dell’opera si rincarnassero in improvvisazioni eleganti e sensuali.
Turandot diventa jazz: un rebus tra i suoni
Il nome stesso del quartetto non è casuale. “Rebus” richiama non solo gli indovinelli della principessa, ma anche il gioco intellettuale e sensoriale che permea l’intero lavoro. Lo dice chiaramente Eugenia Canale nelle note di copertina: “Un’allucinazione, un sogno, un rebus”. E il bello è che tra le tracce si cela davvero un enigma, disseminato come una carezza nascosta.
E mentre l’album si chiude con la struggente “Tu che di gel sei cinta”, proprio lì dove Puccini interruppe la composizione, il silenzio finale suona come un bisbiglio: un invito a riascoltare tutto da capo.
Ultima nota, non ultima parola

Turandot non è solo una reinterpretazione jazz. È un atto di coraggio musicale e poetico. Eugenia Canale riesce a restituirci la grandezza pucciniana con grazia contemporanea, e lo fa con uno stile personale che mescola tecnica, cuore e un pizzico di swing.
In un panorama dove il jazz spesso si limita a citare, Turandot osa raccontare. E ci riesce con eleganza, femminilità e senso del mistero. Come in un sogno lucido, che vibra tra note colte e improvvisazioni leggere.

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