Emanuele Coluccia ci parla del suo nuovo disco: Birthplace, e non solo!

Tra le nostre attività alla scoperta di nuovi dischi, abbiamo ascoltato Birthplace, il nuovo lavoro discografico di Emanuele Coluccia. La sua musica ci ha suscitato interesse ed abbiamo deciso di contattarlo per farcelo presentare.

A beneficio di chi ti conosce per la prima volta, ci fai una tua breve presentazione?

R.: Sono nato a Galatina, nel Salento, e ho vissuto lì fino a 18 anni. La mia formazione musicale è avvenuta in un contesto ambientale dove tutto è possibile e nulla è scontato, dove se vuoi qualcosa davvero lo devi dichiarare e poi perseguire, superando gli ostacoli della pigrizia e del pregiudizio, approfittando delle tracce di luce lasciate attorno a te dal tuo sogno. Sono quindi cresciuto in un mondo dove in una stessa persona convivono l’amico e il nemico, l’opposizione e il sostegno.

I miei interessi personali più intimi ed appassionati si sono orientati sin da piccolo in due direzioni, a volte corrispondenti, altre volte opposte: l’attività musicale e quella meditativa-interiore. Oggi posso finalmente godere dei risultati prodotti nella mia vita dalla consapevolezza che è possibile fare qualunque cosa, come per esempio suonare, restando con sé stessi in uno stato di ascolto e ricettività, prontezza e disponibilità. Spero di essere stato abbastanza breve!

La front-cover del primo disco
Birthplace è il tuo secondo disco in studio, ma tra i due è passato tanto tempo e c’è tanta differenza. Come commenti tutto ciò?

R.: Una delle manifestazioni peggiori della mia personalità, per molti anni, è stata la procrastinazione causata dalla pretesa di perfezione: finivo col non fare nulla perché mi raccontavo che nulla era mai abbastanza.

I due dischi hanno in comune una cosa: a sottrarmi dallo stato passivo in cui ero adagiato sono stati, entrambe le volte, delle persone che mi volevano bene e che amavano la mia musica, Luca Tarantino la prima volta (ricordo ancora quando è passato a prendermi da casa per farmi “una sorpresa” e mi ha condotto in una chiesa sconsacrata di un paesino del basso Salento, dove c’era un piano a coda, e ha montato lui stesso i microfoni con cui ha ripreso quella musica), Dario Congedo e Luca Alemanno la seconda volta, chiamandomi al telefono da Roma e dicendomi: “ora basta! portaci in studio e registra questi pezzi meravigliosi”.

In entrambi i casi, il contributo decisivo è giunto da Irene Scardìa che ha sempre creduto in me più di me stesso.

Dal punto di vista stilistico, i dischi differiscono in questo: il primo è un piano solo, il secondo mi vede collaborare con la sezione ritmica, il che mi permette di tenere la mano sinistra un po’ meno impegnata. Inoltre, nel primo disco ho improvvisato molto di più, intere tracce sono nate nel momento in cui le registravo.

Birthplace invece è uno studio, una selezione del materiale, orientata da quel che i temi suggeriscono, un lavoro più maturo certamente. Personalmente li amo entrambi! Entrambi mi hanno fatto specchiare nelle note, ed entrambi ti conducono in un mondo di possibilità.

Direi che il primo parla di una continua partenza, un continuo cercare la via d’uscita, la fuga, il viaggio, variopinto ed eccitante, seducente, meravigliosi paesaggi, con il continuo dolore prodotto dall’impossibilità di fuggire da sé stessi. Birthplace si concentra più sull’essenziale, cioè sul fare l’unico viaggio veramente importante per me: quello del ritorno a me stesso.

Il disco sembra una perfetta amalgama di stili ed influenze diversi. Noi ti citiamo alcuni brani ai quali ci darai un breve commento. Concluderai con una tua sintesi dell’intero album. Partiamo con Oceano….

R.: Oceano è nata durante la visione di un video8 degli anni sessanta che contiene scene dal matrimonio dei miei genitori.

La melodia di oceano è letteralmente nata mentre guardavo una di queste scene in cui si intravede il mare all’orizzonte. Le prime note di questo brano, nel mio immaginario, altro non sono che quella striscia azzurra d’acqua che sta tra cielo e terra e il suo bordo superiore dritto, infinito, come una pianura salentina, ma più liscio, perfezionato dalla gravità della terra. L’oceano è dolce e rilassante visto così, da lontano, poi da dentro le cose cambiano, puoi sentirti perso, smarrito, o addirittura in pericolo.

Il brano è una breve uscita in mare aperto, l’incontro con un po’ più di quel che ti aspettavi, un ritorno a casa un po’ più consapevole dei pericoli del “mare” della vita.

Eagle’s wish parte come un brano di piano solo per buona parte della durata, poi cosa avviene?

R.: Il tema di questo brano, come quasi tutti i temi di Birthplace, nasce cantando. Mi sono svegliato di notte dopo un sogno e ho cantato le note del tema registrandomi con lo smartphone.

La mattina poi mi sono dedicato ad armonizzarlo, cercando accordi che lasciassero a quel tema lo spazio che desideravo ma conservando una certa profondità. E’ un tema lungo, lento, che si sviluppa in un ampio raggio, come il volo di un’aquila. L’ingresso della sezione ritmica rivela in pieno la mia giovanile passione per il meraviglioso lavoro del Pat Metheny Group. Nel progetto iniziale il brano doveva essere accompagnato da un’intera orchestra, poi le circostanze hanno reso questa idea un ulteriore motivo di procrastinazione e mi sono risolto a suonarlo così.

Cominciare da solo e poi rifare il tutto con la seziona ritmica è uno stratagemma di accumulo che va nella direzione del suono orchestrale, un segno postumo dell’idea originale che produce un effetto simile a quello di un’aquila che vola per un po’ ad altezza del terreno per poi ritrovarsi in pieno cielo, nell’immediato superamento del ciglio di un canyon.

C’è un brano con un titolo impronunciabile: Oxtlapaltekatl. Cosa significa  e cosa vuoi esprimere con esso?

R.: Ero in Messico nel 2004. A seguito di circostanze eccezionali che sarebbero troppo lunghe da raccontare, mi ritrovai a partecipare ad una danza molto particolare con un gruppo di praticanti di questo rito precolombiano che chiamavano, se non ricordo male, danza del guerriero o danza dell’aquila. Il mio spagnolo era pessimo e non comprendevo tutto ciò che mi veniva detto.

Comunque, prima della danza lunga ed estenuante cui presi parte, il maestro del gruppo si avvicinava a ciascuno dei partecipanti con un incensiere rudimentale da cui proveniva un fumo denso, e passava alcuni secondi di fronte ad ogni persona, lasciando che il fumo ne inondasse il volto, e fissando la persona con una strana occhiata le attribuiva, dopo alcuni secondi, un “nome”; si tratta di una modalità di ammissione a riti sacri che avevo osservato anche in altri gruppi indigeni.

Il nome che attribuì a me era appunto OxTlapalTekatl, del quale chiesi una traduzione. Mi rispose, con esitazione: “Oxtlapaltekatl.. colui che cammina per cammini di colore.. speriamo che incontri un cammino che ti piace”. E’ una parola della lingua Nahuatl, composta da tre parole: Ox, o Oj: colui, egli, lui. Tlapalli: colore (in Messico, ancora oggi, il negozio di colori, vernici e ferramente si chiama “tlapaleria”). Tekatl, che a detta del maestro significa Cammino. Non sono certo della traslitterazione.

Con Lejos, crediamo, che tu voglia esprimere anche un velato senso di influenza, nelle tue radici musicali, di un leggendario brano rock in apertura (Wish you where here dei Pink Floyd) mentre sul finale, con le note suonate dal pianoforte, abbiamo l’impressione di sentire, appunto, il finale di What a wonderful world,  di Armstrong. Ci sbagliamo?

R.: Il brano dei Pink Floyd mi ha emozionato ed influenzato senza ombra di dubbio, ma devo ammettere che solo ora che me lo dici me ne sto rendendo conto! Lo stesso dicasi per le note finali che riportano al brano di Armstrong.

Direi che in questa rivelazione leggo alcuni aspetti interessanti di come in noi si creino delle emozioni per associazione diretta di impressioni e memorie, soprattutto se tieni conto del fatto che le due emozioni che associo al brano sono esattamente queste: la nostalgia (“I wish you were here” è una frase nostalgica) e meraviglia. Il brano parla di lontananza da casa e allo stesso tempo di meraviglia profonda per ciò che si sta vivendo.

 

Bright Red un jazz-samba e Azzurro, uno standard della musica popolare italiana. Cosa ci dici di questi due brani?

R.: La sezione A di Bright Red è nata cantando, chitarra alla mano. E’ una melodia semplice in un tempo 6/8 che si incastra con una clave in 5 grazie ad un’intuizione di Dario e Luca. Alle prove avevo portato il brano solo come “riscaldamento”, ma suonarlo con loro era troppo divertente per non registrarlo. Di fatto poi si è rivelata una delle take più belle di tutta la session e si è guadagnata un posto in playlist!

Azzurro è un brano che vive in me come un eterno monumento vivente ad una emozione specifica di quegli anni. Sembrava che tutto andasse per il meglio e che nulla potesse mai andar male. Eravamo sempre pronti a dimenticare i nostri problemi con una risata e a tornare in piedi dopo una caduta facendo riferimento alla gioia di vivere, alla speranza. Certamente eravamo degli illusi, le cose non andavano affatto bene, e tutto questo era in ultima analisi una forma di cecità. Eppure, nonostante tutto, nonostante tutti questi anni, nonostante la violenza e l’ignoranza abbiano assunto oggi proporzioni tremende nella mondo, nonostante la cecità sia ancora lì, e per di più senza la folle allegria di un tempo, nonostante tutto questo, la melodia di Azzurro si è fatta strada in me, si è rivestita di nuvole blu scuro, di tramonti indaco e di profonda gioia di essere qui ed ora, ed è diventata in me una preghiera, un desiderio profondo di risorgere, di ricordare che siamo stati capaci di tirarci su e provare ad essere migliori quando forse non ne valeva la pena, e di sottolineare che ora, forse, è davvero il momento di tirarsi su dalla condizione di bruta malvagità in cui il sonno ci sta gettando e di risorgere a quanto di meglio abbiamo dentro.

Dobbiamo tornare a parlarci con il cuore, non se ne può più di fuggire al nostro ruolo su questo pianeta.

Il brano a cui sei più legato o di cui vuoi semplicemente aggiungere qualcosa?

R.: Vorrei parlare di Alba. E’ un caso raro di brano la cui composizione è avvenuta per il 99% nel subconscio, e che mi si è poi letteralmente rivelato per intero durante una improvvisazione, producendo in me, simultaneamente, il ricordo perfetto della sequenza melodica e armonica, e l’emozione di innamorarmi di quel che suonavo, sapendo che stavo scrivendo in quel momento uno dei miei brani preferiti in assoluto.

Ho avuto momenti di puro godimento e forti emozioni le decine di volte in cui ho suonato quel brano a me stesso, dicendo e ridicendo più e più volte a me stesso, con la musica, quanto sia buono, bello, vero ed utile essere vivi, qui ed ora.

Nel complesso, una forte influenza classica (jazz classico). Un commento su tutto l’album?

R.: La coesistenza di struttura e improvvisazione, la collaborazione tra mano destra e mano sinistra, l’armonia che nasce dalla flessibilità unita all’orientamento, tutto questo diventa un fatto nel jazz. Diceva qualcuno, di cui mi sfugge il nome: il jazz è uno spirito libero che dice “io posso”. La trovo una definizione felice di come ci si può sentire quando i due emisferi del nostro cervello lavorano insieme. Birthplace mi ha insegnato e continua ad insegnarmi tanto. E’ un modo fantastico questo per imparare: fare, ora, il proprio meglio e poi continuare ad ascoltarne l’eco, restare lì a viverne le conseguenze, pronti ed aperti a riceverne una lezione.

Con chi hai realizzato questo magnifico lavoro discografico e quale è stato il loro apporto professionale e personale?

R.: Dario Congedo e Luca Alemanno sono i primi ad apparire; il loro entusiasmo e la loro capacità tecnica sono un chiaro esempio di coesistenza, di collaborazione tra gli emisferi!

Stefano Manca e Valerio Daniele: se il musicista è un uomo, i fonici sono, o dovrebbero essere, i suoi angeli, e certamente loro lo sono!

Benedetta Longo, disegnatrice: il dialogo con lei è stato ed è tutt’ora fondamentale per il mio benessere. Questa musica ha letteralmente vissuto più di una vita grazie ai suoi disegni, che sono parte integrante del CD fisico.

Irene Scardìa e tutta la Workin Family: sono persone che si innamorano di quel che fanno e fanno ciò di cui si innamorano, una fortuna per chi li incontra.

Luca Alemanno
Dario Congedo
Sulla front -cover del disco c’è una grafica con un segno che sembra mutuato da una lingua dell’estremo oriente (cinese, giapponese…) raccontaci come è nata e se significa qualcosa?

R.: L’idea di utilizzare l’Aleph in copertina è stata di Benedetta, idea che ha trovato immediata risonanza ed accoglienza da parte mia e di Enrico Rollo, il quale ha contribuito in maniera determinante al progetto grafico.

Sui significati attribuiti alla prima lettera dell’alfabeto ebraico lascio la parola all’onnipresente Google, che vi assicuro essere più che esaustivo.

Di tutti i significati, certamente quello più importante per noi è quello che connette questa lettera simbolicamente all’idea di origine, ma anche l’idea di sentiero tra cielo e terra, sentiero diagonale capace di unire queste due parti di noi stessi.

Guardiamo al futuro! Birthplace è un disco fine a se stesso, ma che aprirà ad altre esperienze e sperimentazioni,  o è un capitolo di una storia appena iniziata?

R.: Non so dire bene cosa sarà dell’industria dei CD. Ormai sono in pochi a comprare l’oggetto. Credo che fra non molto non se ne sentirà più l’esigenza. Del resto, non credo sia questo l’aspetto centrale della questione.

Birthplace è decisamente un inizio, perché in questo primo periodo di tour mi sono già accorto di cosa sta facendo la differenza: è il live la cosa che conta di più. Il concerto live è contatto, possibilità, influenza, relazione. Molti aspetti dell’industria musicale stanno cambiando definitivamente ed in maniera radicale, e non ho al momento una posizione chiara in merito poiché sono un novellino in questo campo.

Molti aspetti della vita di ogni giorno stanno cambiando in maniera radicale e molto più profondamente di quanto noi ci si accorga della cosa. La relazione, per quanto più rara ed inconsapevole, è la chiave del futuro, il momento di svolta della giornata, della stagione, della vita, del mondo. Se ci salveremo sarà grazie alla relazione, e il concerto è una relazione orientata. Bisogna farne tanti, e andare a viverli. Bisogna che ci diciamo bene dove stiamo andando!

Emanuele Coluccia
La domanda che mai nessuno ti ha fatto ma che avresti voluto che ti facessero?

R.: Non ci crederai, me l’hanno fatta da piccolo, ed era: cosa vuoi fare da grande? Purtroppo, dopo un po’ di tempo, evidentemente spaventati dalle mie risposte, le stesse persone che me l’hanno fatta si son sentite obbligate a darmi anche le risposte, ed è stato l’inizio della fine!.. Oggi ho recuperato la domanda, che è diventata: ora che sono grande, cosa voglio davvero?

Forse ho divagato, magari per domanda intendevi qualcosa di più correlato alla musica.. Vedi il punto è questo, la musica non è separata dalla vita, non può esserlo. La musica vive della vita. Keith Jarrett disse chiaramente in una intervista: “Le persone credono che la musica venga dalla musica, ma non è così. La musica non può venire dalla musica, la musica viene dalla vita”. Concordo completamente con questa narrazione. Sono un amante della musica in sé, adoro il suono e le sue forme, sono sedotto dalle mille forme di questa arte ed oggi abbiamo tanto di cui godere in questo senso.

Il mio obiettivo non è questo. Questo è il mezzo. L’obiettivo è risorgere dalla condizione di paura e stress in cui l’umanità rischia di sprofondare, e tornare a vivere, tornare a parlarci con il cuore.

Il MIO obiettivo è tornare a me stesso, tornare a stare col mio cuore, con la mia intelligenza più profonda e capace, per riuscire a stare con te per davvero, qui ed ora.

La conclusione di questa nostra chiacchierata ci lascia soddisfatti per le curiosità iniziali che avevamo ma ci spalanca la porta per una nuova amicizia e, sopratutto, alla profondità di Coluccia. Oltre la musica, bella, un incontro di cultura e spiritualità forte.

La musica di Emanuele Coluccia potete acquistarla nei migliori negozi di dischi e sulle più importanti piattaforme di streaming. 

 


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