
Steep Steps – WAW!
Etichetta discografica: Hobby Horse Records
Data di uscita: 25 Aprile 2025
Nel jazz, come nella vita, ci sono strade dritte e scalinate ripide. Steep Steps, secondo album del trio Winther / Andersson / Watts, non solo prende la via più difficile, ma ci sale a colpi di groove e sudore. È un disco che non cerca di piacerti: ti sfida. Ti guarda, alza il mento e ti dice: “Se vuoi salire, segui il suono.”
Dopo il botto del debutto WAW!, i tre non si sono seduti a contemplare le stelle: hanno rimesso le mani sulla musica come si fa coi motori prima di una gara. Stessa sessione, stesso studio, ma un’energia diversa. Qui c’è meno sorpresa e più consapevolezza. Come se dicessero: “Adesso sappiamo cosa siamo capaci di fare. E lo facciamo meglio.”
Un trio che parla jazz come fosse il loro dialetto madre.
Il disco apre con You Know, un brano che non ti prende per mano: ti lancia in corsa. Il pianoforte di Carl Winther non è lì per decorare, ma per segnare il cammino. È come un faro che lampeggia nel caos del porto. Richard Andersson pompa il basso con una tensione che sembra venire più dal cuore che dalle corde. E Tain… beh, Tain è sempre Tain. Uno che ha la batteria tatuata addosso. Ti pesta il beat addosso, ma con swing. Come uno che sa come si mena ma anche come si balla.
Su Inner Glimpse si sente chiaramente: non è solo un tributo a McCoy Tyner, è una dichiarazione di fratellanza. Tain ci ha suonato davvero, con Tyner. E quel passato qui ritorna sotto forma di vibrazioni: scure, muscolari, intense. È un groove che sembra venire su dall’asfalto umido di una notte lunga, piena di storie.
La ballad è un blues che ha visto cose.

Quando arriva Soultrane, pensi per un attimo di poterti rilassare. Ma no. Qui la malinconia non è dolce, è vissuta. È quel tipo di ballata che si ascolta appoggiati a un palo sotto la pioggia, con la giacca aperta e gli occhi chiusi. Non c’è niente di patinato. Solo emozione cruda, messa lì senza filtri. Il tema, di Dameron, è come un vecchio racconto jazz: non ha bisogno di effetti speciali per colpirti.
E poi eccola: Steep Steps, la title track. Il pezzo che ti mostra cos’è questo disco. Una salita vera, senza scorciatoie. I tre si parlano con lo sguardo, con l’intuito, con la pancia. C’è un senso di rischio, come se ogni nota fosse appesa a un filo, ma senza mai perdere il controllo. È jazz che fa fatica, sì – ma è quella fatica che piace. Che ti fa sentire vivo.
Finale da sigaretta e bicchiere vuoto.
Chiude Turning Chapter, e lo fa come una buona chiacchierata al bancone: con calma, ma senza smettere mai di tenerti lì. È un commiato, non un addio. È come dire “ci si rivede presto” dopo una jam che ti ha tirato giù i muri. Non servono parole: bastano i silenzi.
Steep Steps, in definitiva, non è un disco perfetto. È meglio.
Perché non cerca di esserlo. Perché preferisce il sudore alla precisione, il feeling al formalismo, la strada all’università. Perché questo trio non suona per farti battere il piede. Suona per farti ricordare da dove arriva il jazz: dai locali scuri, dalla voglia di parlare senza parole, dal bisogno di condividere qualcosa di vero.
Steep Steps è jazz che ti prende a calci ma poi ti paga da bere.

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